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L’altra faccia del cioccolato, cosa c’è dietro al nostro dolce preferito?

Buono, anzi buonissimo, nelle forme e versioni più svariate, utilizzato dall’industria dolciaria mondiale come ingrediente base per la preparazione di molte leccornie, come torte, gelati, biscotti, budini.

L’altra faccia del cioccolato, cosa c’è dietro al nostro dolce preferito?

Esperti e nutrizionisti lo consigliano per migliorare l’umore (la sua assunzione stimola il rilascio di endorfine) e apportare la giusta dose di energie all’organismo nei momenti di forte stress psico-fisico, anche se è bene sapere un consumo eccessivo può indurre ad una vera e propria ‘dipendenza’: parliamo del cioccolato.

E’ l’alimento derivato dai favi dell’albero del cacao e consumato in tutto il mondo fin dai tempi dei Maya, considerati i primi veri scopritori e coltivatori della pianta. Nel corso dei secoli il cioccolato è diventato uno dei dolci preferiti da milioni di persone anche se in pochi si domandano chi, dove e in che mondo viene prodotto, per fare la gioia dei nostri palati.

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In realtà dietro a questo dolce amatissimo c’è lo sfruttamento dei bambini africani della Costa d’Avorio, che con il Ghana produce il 60% del cacao mondiale, del Mali e del Burkina Faso. E sono gli stessi che gestiscono le coltivazioni a reclutare per un pugno di dollari ragazzini e ragazzine da questi Paesi poverissimi che diventano piccoli schiavi nelle piantagioni: un vergognoso traffico di bambini (stimati in 378.000) che dura da oltre 15 anni. Lo sfruttamento della disperazione.

Lo rivelava già nel 2010 lo speciale ‘Chocolate: the Bitter Truth‘, una trasmissione della BB1 in cui il reporter Paul Kenyon, fingendosi un commerciante di cacao, scopre fino a che punto arriva lo sfruttamento minorile nelle piantagioni del cacao.

Anche la situazione di forte instabilità politica di questi Stati amplifica il fenomeno; infatti i contadini, scappati dalle proprie piantagioni per paura della guerra, al loro ritorno le hanno ritrovate occupate da altri.

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I grandi produttori di dolci, quasi sempre le stesse 10 multinazionali alimentari (Nestlè, ADM, Armajaro, Cargill e Barry Callebault), declinano la propria responsabilità, dichiarando che non sono porprietarie delle piantagioni e non sanno quello che avviene laggiù. Eppure i prezzi alla borsa delle materie prime sono fissati proprio da loro. Al ribasso. Questo fa sì che un produttore ivoriano spenda 1,20 euro per produrre 1 chilo di cacao che gli viene pagato 1 euro.

Ma nella tavoletta di cioccolato si nascondono anche gli espropri forzati (land grabbing) dei terreni ai coltivatori locali: in Ecuador ad esempio, gli orti naturali dove da secoli gli indios coltivano il cacao (huertas) vengono distrutti per far posto alle coltivazioni intensive (Colleccion Castro Naranjal numero 51), dalle rendite molto più alte e gestite solo dalle multinazionali, che tolgono ai locali l’unica loro ricchezza, la terra, trasformandoli di fatto in schiavi.

Chi consuma un cioccolatino dovrebbe conoscere a quali condizioni è stata prodotto, per arrivare ad un consumo più etico e consapevole, Una maggiore salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei diritti degli agricoltori dei Paesi che lavorano nelle piantagioni di cacao, canna da zucchero, olio di palma…

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Ad aiutare la pratica indubbiamente concorre la complessità della catena del cioccolato. Diventa difficile controllare tutta la filiera e individuare la provenienza di un singolo favo di cacao.

Naturalmente non tutto è da condannare. Ci sono alcune aziende, riunite in consorzi e cooperative gestite in loco dagli stessi lavoratori, che stanno provando da alcuni anni a rendere la filiera del cacao più equa, ‘certificandola’ contro lo sfruttamento della manodopera (e soprattutto delle donne e dei bambini), privilegiando i piccoli fornitori locali, pagando il giusto, e rispettando maggiormente i ritmi della terra, senza forzare alla massima resa le coltivazioni.

Non è stato possibile applicare alcune azioni correttive come una legge, proposta nel 2001 negli USA, che obbligasse i produttori a indicare nell’etichetta la dicitura ‘Non ottenuto utilizzando il lavoro di schiavi né minori‘. Sarebbe invece stato un ottimo deterrente, perché avrebbe reso legalmente responsabile la stessa multinazionale.

Nella speranza che un atteggiamento più equo nei confronti dei lavoratori e una maggiore attenzione allo sfruttamento dell’ambiente di questi territori poverissimi diventino una realtà e una pratica normale e consolidata da parte dei produttori più importanti, fateci un pensiero, quando addentate un gianduiotto…

LI CONOSCI? 

Erika Facciolla

Giornalista pubblicista e web editor free lance. Nata nel 1980, si trasferisce a Bologna dove si laurea in Scienze della Comunicazione. Dal 2005 è pubblicista e cura una serie di collaborazioni con redazioni locali, uffici stampa e agenzie editoriali. Nel 2011 approda alla redazione di tuttogreen.it per occuparsi di bellezza e cosmetica naturale, fonti rinnovabili e medicine dolci.

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