Ambiente

Plastica nei mari: i dati di un fenomeno presto fuori controllo

Il fenomeno della plastica nei mari è una delle emergenze più inquietanti a livello ambientale presenti oggi: un fenomeno che rischia di diventare presto ingovernabile e che provoca ingenti danni agli ecosistemi ed alla salute umana. Eppure, si contano sulle dita di una mano i Paesi responsabili di più della metà della plastica buttata a mare ogni anno: possibile non si riesca a fare nulla?

Plastica nei mari: i dati di un fenomeno presto fuori controllo

Immaginate di navigare in mare aperto e di scorgere, all’improvviso davanti a voi un’isola del tutto inaspettata: vi sentireste probabilmente come i grandi esploratori del passato, come gli eroi dei più epici racconti. A differenza loro, però, voi rischiate una cocente delusione: quella di rendervi conto di non aver scoperto un lembo di terra inesplorato, ma una delle discariche sorte spontaneamente nell’oceano.

La prima volta che il capitano di uno yacht è incappato nella grande macchia di rifiuti del Pacifico erano gli anni Novanta. Da allora, simili formazioni sono state avvistate in tutti gli oceani.

Si tratta di macchie fitte e compatte che sono formate da rifiuti in plastica che navigano nelle acque, costituendo un pericolo per gli ecosistemi marittimi e anche per le navi. Recentemente, uno studio dell’Australia’s Center of Excellence for Climate System Science ha permesso di avere un quadro più dettagliato della situazione, individuando i moti che portano alla formazione di queste riserve di plastica. La scoperta fatta non è delle più incoraggianti: anche se smettessero oggi di venire immessi nuovi rifiuti nel mare, queste aree già esistenti continuerebbero a crescere per altre centinaia di anni, per via di tutto il materiale già disperso negli oceani!

A vederle, probabilmente, queste isole di plastica non sembrerebbero così terribili: essendo composte di materiale per lo più trasparente e sottile, sarebbe anzi difficile distinguerle ad occhio nudo.

MA QUALCUNO CI PROVA: Come rimuovere 7 milioni di tonnellate di rifiuti dall’oceano…

Eppure, esse costituiscono un enorme pericolo per gli animali marini, con pesci e volatili che rischiano di rimanere impigliati nei rifiuti o di ingerire il materiale di scarto. La plastica nei mari non si degrada se non in tempi lunghissimi e addirittura diventa essa stessa nuova roccia.

Inoltre, come spiegano i ricercatori, la presenza di questi ammassi di plastica è lo specchio di problemi ancor più gravi: sulle stesse rotte e seguendo le stesse correnti marittime si spostano anche i rifiuti tossici che finiscono in mare, accumulandosi e creando danni ancor maggiori agli ecosistemi. Cose che, come vedremo, farebbero quasi pensare che forse il plastic patch è il male minore per i nostri mari.

Plastica nei mari: quanta viene ingerita dai pesci?

La produzione mondiale di plastica supera i 250 milioni di tonnellate l’anno e richiede l’impiego di circa l’8% della produzione mondiale di petrolio. Per i rifiuti successivamente prodotti solo il 3% è riciclato, mentre il restante è disperso in ambiente dall’uomo, abbandonato in terreni agricoli, fiumi e mari (ben 8 milioni di tonnellate finisce negli oceani).

L’analisi condotta dalla Scripps Institution of Oceanography dell’Università di California, effettuata tramite una spedizione in Oceano Pacifico nell’agosto 2009 e pubblicata recentemente sulla rivista Marine Ecology Progress Series, aveva fornito per la prima volta dati concreti riguardo le conseguenze di tali cattive abitudini.

Il gruppo di ricercatori che aveva perlustrato centinaia di chilometri nell’oceano Pacifico settentrionale per raccogliere esemplari di pesce ha potuto dimostrare che più del 9 per cento del pescato aveva piccoli pezzi di plastica nello stomaco.

Dall’elaborazione dei loro risultati è emerso che i soli pesci che abitano il nord dell’oceano Pacifico ingeriscono tra 12.000 e 24.000 tonnellate di plastica l’anno. La presenza della plastica nei mari ha effetti devastanti non solo per gli abitanti dei mari, ma per la sopravvivenza dell’ecosistema, in quanto può impedire alla luce solare di raggiungere il fondo marino, arrestando cosi anche la crescita delle alghe autoctone, come si evidenziava anche in questo articolo Great Pacific Garbage Patch: un oceano di plastica!.

Un primo passo per l’eliminazione di tale forma di inquinamento negli anni scorsi è stato compiuto anche dal Governo Italiano. Da gennaio 2011 sono stati, infatti, messi al bando i sacchetti di plastica utilizzati per la spesa non conformi alla norma tecnica comunitaria EN 13432 a seguito di un divieto sancito dall’Europa. E’ stata bandita, in tal modo, la busta in polietilene, un materiale i cui tempi di degradazione vanno dai 100 ai 1000 anni. Al suo posto vengono utilizzati materiali più biodegradabili e quindi ecologici, composti principalmente da farina, amido di mais, grano e altri cereali. Ma, purtroppo, non in tutto il mondo è così….

plastica nei mari
La plastica nei mari è destinata a diventare un’emergenza fuori controllo a meno che non vengano prese misure radicali a livello mondiale da subito

5 paesi asiatici scaricano più plastica del resto del mondo

Una cosa che non tutti sanno è che degli otto milioni di tonnellate di rifiuti di plastica riversati annualmente nei mari e negli oceani sono responsabili un piccolo numero di paesi: cinque paesi asiatici (Cina, Indonesia, Filippine, Thailandia e Vietnam) sono infatti responsabili del 55-60% dei rifiuti plastici nei mari a livello globale.

Se continuerà questo trend gli esiti saranno catastrofici: nel 2025 la marea dei rifiuti salirà a 250 milioni di tonnellate, pari a una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesce nei nostri oceani. Ad oggi è come se un camion carico di spazzatura riversasse il suo contenuto in mare ogni minuto. Un’immagine inquietante che esemplifica la gravità di un problema risolvibile solo con l’attuazione di politiche comuni.

Tali dati emergono dal recente rapporto “Stemming the tide: land-based strategies for a plastic-free ocean”, redatto dall’organizzazione ambientalista statunitense Ocean Conservancy in collaborazione con il McKinsey Center for Business and Environment. «Questo studio, per la prima volta, traccia un percorso specifico per la riduzione e la definitiva eliminazione dei rifiuti di plastica negli oceani. Viene confermato quello che molti scienziati pensavano già da tempo, cioè che le soluzioni di questa criticità cominciano effettivamente a terra. Servirà uno sforzo coordinato tra le industrie, le Ong e i governi per risolvere questo sempre più grave problema di ordine economico e ambientale», ha affermato l’amministratore delegato di Ocean Conservancy Andreas Merkl.

La plastica è una delle invenzioni più versatili del nostro tempo che ha trovato vaste applicazioni un po’ in tutti i campi. In assenza di accorte politiche per la riduzione degli sprechi e il corretto smaltimento costituisce però un fattore inquinante di estrema pericolosità, configurandosi come una vera minaccia per l’ecosistema. Leggera, forte, insolubile in acqua e resistente al deterioramento biologico, una volta che raggiunge gli oceani assorbe altri inquinanti, si rivela persistente e può mantenere la sua forma per centinaia di anni, compromettendo la salute degli organismi marini con gravi conseguenze per la catena alimentare. Un problema anche per l’industria della pesca, che occupa 55 milioni di persone, per un valore approssimativo di circa 220 miliardi di dollari.

Lo studio della Ocean Conservancy ribadisce che l’80% dei rifiuti plastici finiti nei mari deriva dalla terraferma più che dai pescherecci o dalle piattaforme petrolifere: 3/4 sono il frutto della mancata raccolta, mentre il restante quarto dipende dalle pecche nel sistema di smaltimento. Circa il 60% degli sversamenti di detriti plastici in mare non si deve però ai Paesi più industrializzati, ma a cinque Stati asiatici che in tempi recenti hanno registrato una notevole crescita economica. L’aumento del Pil, la riduzione della povertà e il generale miglioramento della qualità di vita ha generato una crescente domanda di prodotti di consumo, non corrisposta tuttavia da un adeguato sviluppo dei sistemi di raccolta e smaltimento dei rifiuti.

Se la Cina è responsabile di ben 3,5 milioni di tonnellate di plastica che finiscono ogni anno nei mari, altrettanto grave è la situazione nelle Filippine (550mila tonnellate l’anno), dove è praticamente inesistente il riciclo e permangono notevoli carenze in tutta la gestione dei rifiuti, tanto che il 90% della plastica illegalmente smaltita finisce proprio in mare. Più in generale, nei cinque Paesi sopra elencati solo il 40% della spazzatura viene raccolta per lo smaltimento, che a sua volta presenta numerosi limiti a causa dell’abusivismo e delle discariche non sufficientemente isolate.

plastica nei mari
La plastica nei mari è una piaga soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Quali sono le misure improcrastinabili

Per arginare la marea di questi minacciosi detriti Ocean Conservancy suggerisce una serie di misure volte a tagliare la dispersione dei rifiuti del 45% in dieci anni, con la prospettiva di risolvere definitivamente il problema nel 2035. Nel breve e medio periodo il report consiglia di accelerare la diffusione dei sistemi di raccolta e di prevenzione delle perdite successive a questa fase, dando poi impulso alle opzioni di trattamento commercialmente possibili per trasformare i rifiuti in energia o altri materiali (misura che ridurrebbe la dispersione del 16% dal 2025).

A lungo termine sono indicate invece altre priorità, quali le innovazioni tecnologiche in materia di raccolta e trattamento, lo sviluppo di nuovi materiali, l’eco-design di prodotto per facilitare il riutilizzo e il riciclo, nonché l’adesione ai principi di circolarità che assicurano un ciclo di vita della plastica più sostenibile. Stando alle stime fornite dal rapporto il costo totale di queste misure ammonterebbe a cinque miliardi di dollari l’anno. Una cifra non indifferente che avrebbe però notevoli ricadute positive per l’economia globale, basti considerare, solo per fare un esempio, l’incidenza del problema dei rifiuti sui costi sanitari.

Il report parla chiaro: i prossimi dieci anni saranno quelli decisivi per risolvere in modo efficace la dispersione dei detriti di plastica nei mari. Affinché le soluzioni sudiate possano aver successo occorre però una risposta concertata a livello globale, guidata da una coalizione internazionale di aziende, governi e Ong. Tra gli altri compiti questo fronte dovrebbe fungere da catalizzatore degli impegni presi dai singoli governi, fornire concreti esempi di fattibilità mediante i progetti locali e mettere a disposizione il supporto tecnologico nella gestione dei rifiuti. La questione dei detriti di plastica negli oceani acquisirebbe così la sua priorità quale parte dell’agenda politica globale sugli oceani e sull’ambiente.

Stemming the tide” sottolinea in particolare l’importante ruolo dell’industria nel guidare le soluzioni e nel catalizzare gli investimenti pubblici e privati per risolvere il problema della “monnezza” di plastica finita nei mari di tutto il mondo. Il report è infatti un’iniziativa della Trash Free Seas Alliance, un impegno promosso e coordinato dalla Ocean Conservancy teso a unire il mondo dell’industria, quello della scienza e i leader della tutela ambientale che condividono l’obiettivo comune di un oceano sano e libero dalla spazzatura. A questo piano partecipano già importanti multinazionali quali Coca Cola e Dow Chemical e altre se ne aggiungeranno presto, a testimonianza di come tale problema sia particolarmente sentito e abbia raggiunto un livello di criticità.

Tutti gli Stati devono sentirsi coinvolti, poiché la vergogna delle oltre 270mila tonnellate di plastica nei mari ha molte responsabilità e reclama uno sforzo comune. Ad oggi meno del 5% della plastica prodotta viene riciclata, il 40% è destinata alla discarica, mentre un terzo si perde negli ecosistemi con danni rilevanti. Siamo giunti al paradosso che questo materiale simbolo della modernità è talmente diffuso da rappresentare un valido indicatore stratigrafico, utilizzato perfino per i sedimenti marini. Pensate, con la plastica prodotta negli ultimi decenni potremmo ottenere una pellicola capace di avvolgere l’intero pianeta Terra.

Stemming the tide”, il titolo del report, può esser tradotto in “Arginare la marea”. Capirete da soli quanto sia appropriato per la materia in questione, oggi di estrema gravità.

Cosa fa l’Europa?

L’Europa, spesso pioniera nel varare misure che limitano gli impatti ambientali di attività produttive, da tempo sta affrontando il problema della plastica nei mari da più angolazioni.

Da un lato, ambisce a ridurre del 30% entro il 2020 i 10 oggetti di plastica più comuni che vengono trovati in mare. Dall’altro, favorendo un’economia circolare che privilegi riciclo, riuso e l’utilizzo efficiente delle risorse, con la collaterale riduzione degli oggetti di plastica usati.

A inizio 2018 la è stata pubblicata una nuova Strategia sulla plastica, che mira a fare dell’UE la capofila mondiale nella transizione a una plastica sostenibile (bioplastica o materiali interamente riciclabili).

La Strategia sulla plastica prevede che entro il 2030, tutti gli imballaggi nel territorio UE siano riciclabili. L’uso di microplastiche dovrà essere drasticamente ridotto. Un passo necessario che ci auguriamo venga emulato da tutti i governi nel mondo, per scongiurare lo scenario da incubo che si prospetta: un mare popolato da plastica più che da pesci.

Plastica nei mari: le letture utili

Ecco qualche libro che parla del fenomeno reperibile online:

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