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In Calabria acqua al benzene (e non solo) dal bacino di Alaco. Uno scandalo di cui nessuno parla

Quella del bacino dell’Alaco è una storia ‘sporca’ sotto ogni punto di vista. Sporca è l’acqua di raccolta dell’invaso che viene distribuita ai Comuni del vibonese attraverso una rete idrica che definire ‘fatiscente’ è farle un complimento; sporchi sono gli affari in odore di mafia che vi gravitano intorno; sporchi i rapporti che legano a doppio filo la società privata Sorical – dietro la quale c’è la francese Véolia, la stessa che gestisce anche l’inceneritore di Gioia Tauro – la Regione Calabria e alcuni rappresentanti di quegli 88 comuni delle ‘Serre’ calabresi che da anni combattono una guerra aspra e vergognosa per vedersi riconoscere un diritto sacrosanto: l’accesso ad una fonte di acqua potabile, sicura e pulita.

In Calabria acqua al benzene (e non solo) dal bacino di Alaco. Uno scandalo di cui nessuno parla

LO SAPEVI? Acqua pubblica, sempre più privatizzata

Un miraggio,o per meglio dire, una vera e propria utopia visto che quell’acqua è talmente avvelenata e pericolosa da non poter essere utilizzata neanche per le pulizie domestiche, né tanto meno per abbeverare bestiame o colture. Eppure la Calabria, e in particolare la zona in cui sorge il bacino dell’Alaco, tra i comuni di Badolato e di Serra San Bruno, è una delle aree più ricche di sorgenti naturali e antiche fontane che si perdono tra fitti boschi, dove gli abitanti dei centri limitrofi sfilano ogni giorno in processione muniti di taniche, damigiane e bottiglie per procurarsi dell’acqua potabile che la Sorical e le autorità locali non sono in grado di portare nelle loro case.

Il rimpallo delle responsabilità, in questa assurda vicenda, è una costante: Sorical accusa i Comuni di inquinare l’acqua immettendola in una rete di distribuzione non idonea, mentre i Comuni accusano Sorical di mettere nei loro tubi un’acqua avvelenata fin dalla fonte. La verità, come al solito, dovrebbe stare nel mezzo, ma nel caso dell’invaso dell’Alaco è più corretto dire che tutti i soggetti coinvolti hanno colpe gravissime. In altre parole, siamo di fronte ad un altro caso esemplare di quanto pericolosa possa essere la privatizzazione di un bene sacro e inviolabile come l’acqua.

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La Sorical, infatti, vende a carissimo prezzo ai Comuni la loro stessa acqua senza provvedere alla manutenzione della rete idriche che di fatto spetta alle stesse Amministrazioni locali; a fronte di tutto ciò, i francesi di Véolia, riconoscono alla Regione Calabria un canone da 500.000 euro all’anno per usare tutti gli impianti presenti sul territorio. Una cifra ridicola, che corrisponde ad un quarantesimo del prezzo che la società di gestione dell’acqua milanese paga per utilizzare gli impianti del solo territorio cittadino.

Il problema, però, è che per gestire una fonte come quelle dell’Alaco servono interventi e investimenti importanti per bonificare l’area, intensificare i controlli, e soprattutto, tenere lontane le attenzioni di quanti gestiscono affari ancora più torbidi nei pascoli adiacenti al lago. Nel 2005 – anno in cui la Sorical entra in possesso della diga – i fondali del lago sono densi di depositi ferrosi, manganese, escrementi, benzene e altre sostanze tossiche che rendono il bacino più simile ad un’ enorme palude nauseabonda che a un bacino di raccolta di acqua destinata all’uso civile. Sulle sponde, l’acqua è schiumosa e marrone, le vacche pascolano liberamente fino agli argini e una vegetazione tetra e ‘incolore’ fa da cornice a questo paesaggio desolante.

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Nel frattempo i vecchi pozzi sono stati chiusi e nonostante la gente chieda a gran voce di riaprirli la Regione e i Comuni non possono più far nulla: i cittadini sono costretti a ‘bersi’ l’acqua giallastra e melmosa che sgorga dai rubinetti delle loro case, assieme a un carico di menzogne e verità nascoste divenute ormai intollerabili.

La Regione Calabria è costretta a ‘svegliarsi’ dal torpore solo nel 2010 quando le segnalazioni dei cittadini e le montagne di denunce accumulate sui tavoli delle Procure fanno scattare i primi controlli e, inevitabilmente, i primi avvisi di garanzia e le prime ordinanze di sequestro. Da qui in avanti si apre il valzer dei divieti emanati e poi revocati, delle frettolose smentite, dei presunti ‘errori’ nelle analisi, dei passi indietro di fronte a verità inquietanti che pian piano cominciano inevitabilmente a venire a galla.

È storia recente l’apertura di un’interrogazione parlamentare aperta ufficialmente a Roma per far fronte ad un’emergenza divenuta insostenibile. Ora che la macchina della Giustizia è stata finalmente messa in moto, la gestione del bacino dell’Alaco non è più una matassa da sbrogliare tra le mura dei palazzi governativi calabresi o sui tavoli dei dirigenti della Sorical, ma una questione di sicurezza nazionale che lo Stato dovrà essere in grado di affrontare senza più alcuna riluttanza.

Erika Facciolla

Giornalista pubblicista e web editor free lance. Nata nel 1980, si trasferisce a Bologna dove si laurea in Scienze della Comunicazione. Dal 2005 è pubblicista e cura una serie di collaborazioni con redazioni locali, uffici stampa e agenzie editoriali. Nel 2011 approda alla redazione di tuttogreen.it per occuparsi di bellezza e cosmetica naturale, fonti rinnovabili e medicine dolci.

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