Bioplastica, sai che cosa vuol dire? Cominciamo col dire una cosa importante. La bioplastica rientra nel rango dei materiali che vanno incontro alle esigenze di chi ama l’ambiente, ma non vuole rinunciare alla comodità del progresso.
La bioplastica è infatti una valida alternativa alla plastica tradizionale. Con l’unica, notevole, differenza che la bioplastica è ricavata da materiale organico. E per tanto non inquinante.
Per la sua produzione servono elementi come mais, frumento, barbabietola o altri cereali. Il risultato è un prodotto simile alla plastica ma assolutamente biodegradabile, che scompare in un paio di mesi. Notevole la differenza rispetto alla plastica tradizionale, derivata dal petrolio. Quest’ultima necessita di ben mille anni per essere smaltita totalmente.
I materiali in bioplastica, invece, richiedono solo qualche mese per venire biodegradati e non rendono sterile il terreno. Al contrario, alcuni tipi di bioplastiche consentono di ricavarne concime fertilizzante dopo l’uso.
Uno fra gli esempi più significativi è l’utilizzo della bioplastica in agricoltura per la pacciamatura, il metodo col quale si ricopre il terreno con uno strato di materiale per impedire la crescita delle erbacce. Il biotelo risolve lo smaltimento dei rifiuti perché la pellicola viene lasciata a decomporsi in modo naturale.
Anche in tema di smaltimento rifiuti l’utilizzo esclusivo della bioplastica, oltre che fare bene all’ambiente, fa risparmiare anche tempo, denaro e attrezzature. I rifiuti bio possono essere depositati in una discarica, vista la loro rapida decomposizione.
Questo tipo di smaltimento sarebbe più vantaggioso rispetto alla termovalorizzazione perché richiederebbe meno energia e meno processi. Una tonnellata di bioplastica impiegherebbe tra i 5 e i 10 minuti per essere compressa e, non essendo un processo chimico ma meccanico, non rilascerebbe fumi tossici nell’atmosfera.
Inoltre, sappiamo bene come, col trascorrere del tempo, i contenitori alimentari rilascino sostanze nocive che possono essere assorbite dai cibi stessi, come accade per esempio con le bibite in lattina.
Con contenitori bio ciò non accadrebbe! Infatti, l’unica cosa che possono rilasciare è amido di mais, senza alterare il gusto dei prodotti e senza pericolo di intossicazione.
Secondo uno studio condotto nel 2009 dall’Università di Utrecht, per conto dell’European Polysaccharide Network of Excellence e l’European Bioplastics Association, i biopolimeri potrebbero sostituire in un futuro, non così lontano, buona parte delle materie plastiche di origine petrolifera.
Lo studio è stato effettuato da Martin K. Patel, Li Shen and Juliane Haufe e ha ipotizzato che più del 90% del corrente consumo globale di polimeri può tecnicamente essere sostituito con materie prime rinnovabili al posto delle tradizionali sostanze. Chiaramente è un dato soltanto teorico e nel breve periodo la percentuale tende ad essere più bassa.
Una cosa è certa comunque: sulla base di recenti studi, la produzione di bioplastica potrebbe raddoppiare nel corso del prossimo decennio.
Ma non solo. Entro il 2020 ci sarà una consistente richiesta di polimero di PLA, di origine vegetale derivato dell’amido di mais. (NB: fanno parte delle bioplastiche il Mater-Bi, il PLA e il Biolice).
Questo porterebbe, nelle più ottimistiche previsioni, ad un aumento della produzione di bioplastica fino a 4.40 Mt entro il 2020!
C’è da dire comunque che i costi legati alla bioplastica sono ancora troppo alti e poco competitivi. Anche se, secondo European Bioplastics, il mercato dei biopolimeri è in crescita. Si stima un aumento delle capacità produttive globali, che potrebbe portare ad un abbattimento dei costi importante.
L’aumento della produzione di bioplastica potrebbe essere dovuto a una maggiore presa di coscienza ‘ambientalista’ da parte di Stati e istituzioni in generale. Come vi avevamo già indicato, a partire dal 2011 in Italia è stato avviato, ad esempio, un programma per la progressiva riduzione della commercializzazione di sacchi per l’asporto delle merci e la loro sostituzione con sacchetti di bioplastica.
Ma come si fa a riconoscere un sacchetto di bioplastica e sapere che sia conferme alla normativa? Ed interamente biodegradabile e compostabile? In realtà è semplice!
Controllate sul sacchetto se è riportata la dicitura “biodegradabile e computabile”. Se viene citato lo standard europeo (UNI EN 13432:2002). E infine se compare il marchio di un ente certificatore, che tutela il consumatore come soggetto terzo (Cic, Vincotte e Din Certco sono alcuni dei più noti).
In assenza di questi segni di riconoscimento, state certi che non è bioplastica.
Si, ma solo fino al 10%! Ma vediamo come mai. Forse non tutti sanno che la bioplastica si può riciclare assieme alla plastica vergine, quando arriva a fine ciclo di vita. E che quindi deve essere smaltita separatamente per non rovinare il recupero della plastica vergine. A queste e altre domande ha risposto recentemente la European Bioplastics, associazione europea delle aziende del settore. La EB ha condotto una lunga analisi sul riciclo della plastica e delle bioplastiche a base di amido, che sono biodegradabili e compostabili.
Lo studio ha confermato sostanzialmente i risultati ottenuti un anno fa da CONAI. Entro la soglia del 10%, le bioplastiche non danneggiano in alcun modo la raccolta differenziata delle plastiche vergini.
Una conclusione incoraggiante, che però non deve fare perdere di vista alcune regole fondamentali alla base del corretto smaltimento di questi materiali.
Seguendo queste regole, non si influisce negativamente sulla riciclabilità degli altri imballaggi plastici tradizionali:
Quest’ultimo punto, secondo lo studio condotto da Conai, risulta essere la soluzione a minor impatto ambientale.
Tra i suggerimenti indicati da Conai per migliorare la raccolta e il riciclo delle bioplastiche c’è l’applicazione di un simbolo unificato ben riconoscibile sulle confezioni biodegradabili. Un’indicazione che consentirebbe al consumatore di sapere che tipo di acquisto sta effettuando e quale materiale ha di fronte. Aiutandolo dunque a smaltirlo correttamente una volta giunto alla fine del suo ciclo di vita.
Da oggi anche gli scarti vegetali di ortaggi e verdura possono essere riciclati per produrre sacchetti in ecoplastica.
A rivelarlo è uno studio condotto dal CNR. Presso i suoi laboratori è stata prodotta una sportina ecologica addirittura dalle bucce di pomodoro.
L’importanza di questo risultato consiste nell’aver introdotto nuovi materiali di scarto industriale nel contesto produttivo delle bioplastiche. Le bucce dei pomodori altrimenti destinate al macero sono solo un esempio.
Lo stesso studio mostra infatti un altro aspetto interessante. Lo stesso processo utilizzato per i polisaccaridi di origine vegetali (mais e patate) può essere applicato non solo ai residui di origine vegetale. Quindi anche agli scarti animali come quelli derivanti dalla lavorazione dei crostacei e dalla lana di pecora non destinata ai filati.
Combinati con polimeri vegetali come quelli ottenuti dalle bucce di pomodoro, questi rifiuti possono dare vita a bioplastiche speciali. Molto più robuste di quelle attuali e completamente biodegradabili.
Interessante prospettiva anche questa, non è vero?
Sulla faccenda delle bioplastiche le critiche sono state diverse, come quella dell’associazione europea del PET che da tempo sostiene che la plastica biodegradabile non solo ha costi più elevati, ma richiede più stringenti controlli di temperatura nelle fasi di trasporto e stoccaggio. Questo potrebbe ridurre i benefici ambientali complessivi.
Se poi si considera che parte della bioplastica potrebbe finire in discarica per un errato conferimento la cosa si complica. Questo infatti aumenterebbe la produzione e l’emissione di gas metano in atmosfera. Per non parlare di quanti sostengono che i frutti della terra vanno usati come cibo e non come alternativa al petrolio.
Insomma il tema delle bioplastiche è della loro adozione come sempre suscita voci contrastanti. Noi pensiamo che il bilancio sia comunque positivo. E voi? Cosa ne pensate?
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