In tema di alimentazione e di sostenibilità capita di sentir parlare di ‘filiera corta’, ma sempre più spesso questo concetto è usato in maniera impropria o fuorviante. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di capire quali sono i requisiti che i prodotti che acquistiamo devono possedere per potersi definire ‘a km zero’ o provenienti da una ‘filiera corta’.
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Per prima cosa bisogna sapere che i due concetti non sono esattamente sinonimi. Quando si parla di ‘filiera’, infatti, si fa riferimento al numero dei processi produttivi necessari a trasformare un qualsiasi prodotto alimentare e portarlo sulla tavola del consumatore. Lo scopo della ‘filiera corta’ è quello di ridurre il più possibile questi passaggi per diminuire i costi di produzione e quindi il prezzo finale che sostiene il consumatore.
Il concetto – nella sua accezione economica – è estendibile a tutti i prodotti del settore agroalimentare e sempre più convergente al criterio di tranciabilità degli alimenti che consente di sapere con certezza da dove proviene il cibo che mangiamo e a quali processi industriali è stato sottoposto.
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I prodotti a ‘Km zero’ sono prodotti locali che vengono venduti nelle immediate vicinanze del luogo di produzione, il ché garantisce per definizione genuinità e freschezza. In questo caso la zona di produzione è ben determinata e l’assenza totale di intermediari commerciali garantisce un buon margine di guadagno per il produttore (molto spesso un agricoltore o allevatore di zona) e un risparmio significativo per il consumatore.
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La scelta di consumare prodotti a ‘Km zero’, dunque, è motivata soprattutto da un legame profondo con il proprio territorio, dal desiderio di valorizzare i prodotti della terra d’origine, di esaltare i sapori, i profumi e le tipicità gastronomiche locali e di ricercare un rapporto diretto e personale con chi produce ciò che si porta in tavola.
Immagine via Shutterstock
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