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I Paesi dell’Est Europeo vogliono rendere meno dura la politica ambientale… perché non ce la fanno ad adeguarsi

Un fronte comune contrario alle politiche ecologiche comunitarie. Lo hanno costituito Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria e Romania, tutti Paesi dell‘area orientale che chiedono maggiore elasticità nell’adozione di misure contro il cambiamento climatico.

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In un incontro organizzato a Varsavia tra i rappresentanti di queste Nazioni è stato raggiunto un accordo per chiedere all’UE un’applicazione più light delle azioni concordate, sebbene costituiscano anche per loro un impegno politico ma senza ‘fissare regole giuridiche basate sull’ obbligatorietà‘.

La ragione va ricercata nel forte ritardo in materia di eco-sostenibilità, adeguamento dei sistemi infrastrutturali e politica energetica che questi Paesi si trovano ad affrontare rispetto ad altri Stati euopei, anche per la pesante eredità sovietica, che non ha mai prediletto la tutela dell’ambiente. Un dato su tutti: la Polonia, capofila dei ‘revisionistii’ copre il 95% del fabbisogno energetico nazionale con il carbone, una delle fonti più inquinanti in assoluto.

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Dall’altra parte ci sono i limiti fissati da Bruxelles. Entro il 2020 l’UE vuole ridurre del 20% delle emissioni di CO2, aumentare del  20% lo sfruttamento delle energie rinnovabili e tagliare del  20% i consumi ricorrendo a strategie di efficienza energetica.  E l’obiettivo finale è di raddoppiare (-40%) entro il 2030, per tutte e tre le voci.

La domanda sorge lecita: riusciranno i paesi centro-orientali ad adeguarsi in tempo? Considerando le condizioni di partenza – una gestione del comparto energetico obsoleta rispetto al gruppo occidentale – è logico immaginare che ad Est di quella che fu la ‘Cortina di Ferro’ ci vorranno più tempo e maggiori sforzi per soddisfare lo standard.

O in alternativa, sarà la UE a dover abbassare le pretese.

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