Lo shoyu, meglio conosciuto come salsa di soia, è uno dei prodotti più celebri della cucina cinese. Ma come viene realizzato, e che cosa rimane precisamente della soia quando lo consumiamo?
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In questo articolo parleremo di uno dei prodotti che non appartengono alla nostra cucina ma che, a seguito della diffusione delle cucine straniere nel nostro paese, è diventato molto popolare. È lo Shoyu, meglio noto come salsa di soia, una salsa di colore marrone/nero molto salata che troviamo soprattutto nella cucina cinese.
In questo articolo cercheremo di capire come, da un legume come la soia, si possa ricavare questa salsa, e scopriremo soprattutto che il processo di produzione industriale, piuttosto diverso da quello tradizionale, ci fornisce un prodotto differente da quello che fa parte della cucina orientale da secoli.
Per prima cosa, cerchiamo di capire quali siano gli ingredienti di questo prodotto; chiaramente sono cose piuttosto particolari, ed è impossibile replicarlo in casa, ma è importante conoscerli per arrivare a capire come si formi il liquido che ben conosciamo.
Gli ingredienti tradizionalmente utilizzati per la preparazione di questo prodotto sono tre: uno è la soia, ovviamente, mentre gli altri sono il grano (o comunque un cereale) ed il koji, al secolo Aspergillus oryzae, che è un fungo piccolissimo.
Ognuno dei tre ingredienti ha un compito ben preciso nella produzione del composto, che è praticamente un prodotto digerito, dal fungo; il processo non è diverso da quello del nostro vino, dove funghi microscopici ben precisi “mangiano” lo zucchero dell’uva per produrre l’alcool, in un processo detto fermentazione. In questo caso gli ingredienti sono diversi, ma le basi biochimiche sono molto simili, e sono proprio queste modifiche a creare il prodotto finale così come lo conosciamo.
Tra gli ingredienti, il grano ha la funzione di nutrire il koji, che in pratica fa tutto il lavoro: per questo viene schiacciato e tostato, affinché i suoi carboidrati diano al fungo l’energia necessaria per lavorare.
Della soia, la parte importante sono le proteine: per questo motivo, mentre nella produzione tradizionale viene usato il seme di soia (simile ad un fagiolo) in quello industriale si preferisce utilizzare le proteine idrolizzate di soia, un prodotto a sua volta industriale contenente solo una frazione del legume; in questo modo, chiaramente, il sapore cambia inevitabilmente.
Appunto a parte per il koji: questo fungo, un fungo filamentoso, necessita di una coltivazione a parte e ci sono aziende che coltivano koji per questo e per altri utilizzi (nell’industria orientale, sempre); sviluppa particolarmente bene sul riso, ed è per questo motivo che il fungo viene coltivato su colture di riso e fatto sviluppare; quindi, quando si è riprodotto, viene separato dai chicchi di riso e abbiamo il koji.
Una volta messi insieme gli ingredienti, si passa al processo produttivo di questo condimento.
Questa fermentazione in ambito domestico è brevissima (due, tre giorni) mentre industrialmente, visti i grandi quantitativi, dura diversi mesi, da 8 a 12 mesi, e anche questa è una differenza importante e percepibile nel prodotto finale.
Terminato il periodo di fermentazione, ciò che era nel contenitore viene estratto e vengono separati tramite filtrazione i residui solidi (che si buttano) da quelli liquidi, che costituiscono lo shoyu vero e proprio; è a questo punto che viene aggiunto il sale, perché se fosse stato messo prima presumibilmente avrebbe ucciso completamente il koji.
La salsa viene quindi pastorizzata, portata ad una temperatura di circa 72 gradi, processo essenziale per uccidere il koji che, altrimenti, potrebbe proliferare nel prodotto finito continuando a fermentarlo e modificandone il sapore. Uccidendo i koji e aggiungendo il sale abbiamo la garanzia di un prodotto sicuro e conservabile a lungo, nel tempo. La salsa viene quindi messa nei barattoli ed è pronta per la vendita.
Questo è il processo di base per la produzione della salsa di soia: un prodotto che in passato, nelle regioni in cui è nato, era molto più naturale rispetto al composto industriale, che purtroppo è praticamente l’unico che arriva nel nostro paese e che possiamo assaggiare senza recarci fisicamente dall’altra parete del mondo.
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