Chi consuma solo prodotti a km 0 (o quasi) si ricordi bene di cosa si tratta e di quanto può aver viaggiato prima di arrivare al carrello della spesa. A volte ha percorso molti più chilometri di quanto si possa sospettare, ma spesso arriva da un posto vicino.

Sommario
Cos’è il cibo a chilometro zero
Negli ultimi anni, sempre più consumatori, ristoratori e agricoltori parlano e scelgono il cibo a chilometro zero. Ma cosa significa davvero questa espressione? È solo una moda o c’è dietro un vero cambiamento culturale, ambientale ed economico?
Cosa significa mangiare a km zero
Il cibo a chilometro zero è un alimento prodotto, trasformato e distribuito nel raggio più vicino possibile al punto di vendita o di consumo. In altre parole, è un cibo che non ha viaggiato molto, evitando lunghi trasporti e filiere complesse. Questo concetto si oppone al cibo globalizzato, spesso prodotto a migliaia di chilometri di distanza.
Spesso si tratta di prodotti stagionali, venduti direttamente dal produttore al consumatore, attraverso mercati contadini, gruppi d’acquisto solidale (GAS) o negozi locali.
I benefici del cibo a chilometro zero
I prodotti a km 0 non sono solo una scelta alimentare, ma un atto consapevole che coinvolge ambiente, salute, economia e comunità. Non si tratta certo di una soluzione per tutto quello che consumiamo, ma è comunque un elemento di scelta importante per costruire un sistema agroalimentare più equo, sostenibile e umano. E l’Italia, con la sua biodiversità agricola e tradizione gastronomica, è in prima linea in questa rivoluzione silenziosa. Per questo ci sono diversi benefici nell’adottare il più possibile alimenti a filiera corta.
1. Impatto ambientale ridotto. La riduzione delle emissioni di CO2 dovute al trasporto è fondamentale. Un pomodoro coltivato in Puglia e venduto a Bari ha un’impronta ambientale decisamente inferiore rispetto a un pomodoro importato dal Marocco o dall’Olanda. Inoltre, si limita l’uso di imballaggi e conservanti.
2. Maggiore qualità e freschezza. Meno tempo tra raccolta e consumo significa alimenti più freschi, nutrienti e gustosi. La frutta e la verdura, ad esempio, mantengono meglio le loro proprietà nutrizionali se consumate appena raccolte.
3. Benefici per la salute. Consumare cibo locale e di stagione è spesso più sano. Inoltre, prodotti non trattati per la lunga conservazione contengono meno pesticidi e sostanze chimiche. La filiera corta riduce anche il rischio di contaminazioni multiple legate alla manipolazione industriale.
4. Sostegno all’economia locale. Acquistare a km zero significa sostenere agricoltori e produttori del territorio, favorendo la sopravvivenza delle piccole imprese agricole e contrastando il predominio delle multinazionali. I soldi restano sul territorio, creando ricchezza diffusa.
5. Maggiore trasparenza nella filiera. Il consumatore può conoscere direttamente origine, metodi di coltivazione o allevamento, condizioni di lavoro e sostenibilità dei prodotti, con maggiore fiducia nel cibo che acquista.
Qual è l’impatto sulla filiera alimentare
Il cibo a km zero va contro la classica filiera agroalimentare industriale, quella basata su lunghi percorsi logistici, grandi volumi e intermediari.
La filiera corta è di certo più resiliente, più controllabile e più adatta a rispondere a crisi (come pandemie o conflitti) che possono interrompere le forniture globali.
La situazione in Italia del cibo a km zero
L’Italia è uno dei paesi europei più attivi sul fronte del cibo a km zero. Secondo Coldiretti, oltre il 30% degli italiani acquista regolarmente prodotti locali, e la rete dei mercati contadini è in continua espansione.
- I consumatori. Sempre più persone partecipano ai GAS, gruppi di acquisto solidale. Crescono le app e le piattaforme digitali che mettono in contatto diretto produttori e consumatori. Le aziende agricole multifunzionali vendono i propri prodotti attraverso spacci aziendali o agriturismi.
- La ristorazione. Molti ristoranti si definiscono ‘a km zero’ o farm-to-table, valorizzando le eccellenze locali. Alcune mense scolastiche e ospedaliere iniziano a includere alimenti locali nei menu, anche se le gare d’appalto pubbliche spesso frenano questa tendenza per via dei costi.
Quali sono i pericoli del cibo a km zero
A volte, però, quello che si porta in tavola credendo sia a km zero, ha invece viaggiato per parecchio tempo, attraversato interi continenti, solcato mari e oceani prima di giungere a destinazione.
Tra i banchi del reparto frutta e verdura di ogni supermercato, non è raro trovarsi di fronte a mele cilene, kiwi neozelandesi (nonostante l’Italia sia il primo produttore mondiale di kiwi…), ananas del Kenya e perfino uva sudafricana. Saltando da un angolo all’altro del globo, insomma, si scopre che la lista dei prodotti non esattamente a km zero è molto nutrita.
Pensate che negli Stati Uniti i prodotti ortofrutticoli più consumati percorrono in media 2.400 km prima di arrivare sulle tavole degli americani. E c’è di più: considerando i lunghi tragitti che questi alimenti devono percorrere prima di raggiungere la meta, scopriamo che trasporto, refrigerazione e distribuzione assorbono circa l’80% dell’energia necessaria per produrli e immetterli sul mercato.
Oltre alla notevole quantità di energia utilizzata per movimentare il cibo e conservarlo fino al momento del suo arrivo nel supermercato, anche l’anidride carbonica emessa per trasportarlo varia a seconda del mezzo utilizzato e di quanto quell’alimento ha dovuto viaggiare.
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Ultimo aggiornamento il 4 Aprile 2025 da Rossella Vignoli
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